La pena
Sono stata espulsa dalla
bocca dell'Inferno pochi giorni fa.
Danno, ricovero,
operazione. Non spiegherò cosa mi è successo, conservo ancora del
pudore, per le esperienze personali, per le gioie e i dolori più
intimi. Ma credo che, in un mondo dove tutto corre troppo
velocemente, dove la gente pensa poco, e trascorre ancor meno tempo
con se stessa, per affrontare il sublime e l'orrore della vita,
forse, questa mia minuscola tragedia (in confronto a tante altre) può
dare un punto di vista Altro. Ed è soltanto per questo che voglio
scrivere perché, a mio avviso, sia necessario viverlo, il dolore.
Quanto mi è accaduto era
prevedibile. Lo è nella vita di ogni donna. E io ci avevo pensato
per anni. A questo e a molto altro ancora. Mi dicevo che, dal momento
che miliardi e miliardi di donne come me vivono sulla propria pelle
avvenimenti simili, se fossero accaduti proprio a me, me ne sarei
fatta una ragione. Non mi considero che un pulviscolo in questo
nostro grande mondo, perciò, chi mai sono io per trovarmi immune
dinanzi a certe sfortune, ai giochi del destino? Non sono proprio
nessuno.
E nonostante tutto
questo, nonostante la forza della mente, la ratio, quando la tragedia
si abbatte su di te, ti spoglia di ogni singola certezza. Quello che
prima mi sembrava una tappa del destino che può capitare a chiunque,
quando mi ha colpita si è trasformata in un crudele ghigno
infernale. Ero diventata la vittima di una disgrazia che mi tagliava
le gambe, mi schiacciava a terra e non c'era nessuno che potesse
risollevarmi.
Ho sempre creduto nel
potere della conoscenza di se stessi. Conoscere se stessi è il
principio, il punto di partenza della vita. Niente è possibile,
davvero, se prima non si compie questo iniziale viaggio dentro di sé.
Ma quello che mi è accaduto, ha fatto sì che si creasse una crepa,
una frattura sul ponte che mi collegava a me stessa, al mio spirito.
Sono rimasta per delle ore in un limbo, o meglio, in una stanza di
ospedale, sola, incapace di trovare una ragione, una sola per quanto
mi stava accadendo.
Poi, dal nulla è
arrivata questa infermiera. E come una Madre si è seduta ai piedi
del mio letto. Mi ha rassicurata, con parole ripetute centinaia di
volte prima di me, ad altre donne, lei che questa sfortuna non l'ha
avuta. La guardavo? No, il mio guardo continuava a osservare il muro
alle sue spalle. Lei era trasparente. Come ogni altra cosa in quella
stanza. Eppure, dal fondo del nulla in cui ero caduta, frammenti di
una frase mi hanno raggiunta:
“Succede più spesso di
quanto non si creda. C'è chi la chiama selezione naturale. Io penso
semplicemente che Madre Natura sappia quello che fa e, quando è
possibile, agisca per il meglio della persona”.
Madre Natura.
È stata come una parola
d'ordine per il mio spirito. Il ponte si è ricompattato e io ho
ritrovato la strada per ricongiungermi a me stessa. E allora la
stanza è rimasta vuota, sì, ma per mia volontà. Per giorni i miei
amati mi chiedevano perché non volessi troppe visite, perché non
volessi generi di conforto, una televisione, qualsiasi cosa? Erano
preoccupati per la mia solitudine. Non riuscivo a spiegarlo in alcun
modo che quella desolazione era fonte di quiete per me. Mi induceva
all'introspezione. A volgermi dentro me stessa, nel silenzio più
assoluto. A parlare con la parte più profonda di me, il mio spirito,
per cercare una ragione a tutto quello che mi stava accadendo.
Ho pianto. Avevo bisogno
di farlo. In quella stanza ho creato un fiume di lacrime e talvolta
mi sembrava di poter annegare in esso. A momenti mi capitava di
sognare di correre nei boschi di rovere della mia Bosnia, per
perdermi nel loro punto più oscuro, come era accaduto a mia nonna
Jelica, che da lì non era più uscita, viva. Oppure di gettarmi in
mare, affinché le lacrime potessero disperdersi con l'elemento
naturale, e io diventare tutt'uno con l'Adriatico, che mi ha vista
nascere. Tornare alle origini, insomma, e perdermi in esse.
Ma io non sono abituata a
perdermi per tanto tempo. Per anni ho visitato gli anfratti più
celati del mio spirito, ho guardato in faccia il dolore, la felicità,
la separazione, la rinuncia, la speranza. C'è ancora molto, dentro
di me, da esplorare. E questa esperienza me lo ha confermato. Eppure
quanto ho già visto ha fatto che sì che potessi rimanere a galla.
Quando soffri per una
perdita, quello che succede è che hai pena di te stessa. Hai pena
per quell'essere minuscolo che senti piangere, e che a momenti ti
sembra estraneo. Poi ti rendi conto che sei proprio tu. E piangi
ancora più forte. Per compassione e per rabbia. Per frustrazione e
perché non hai più la forza di importi di smettere.
Quando ho smesso davvero?
Quando il cuore si è ricongiunto alla ragione. Quando cioè, quello
che la razionalità mi aveva sempre detto è stato accettato anche
dal mio spirito. Puoi cercare di consolare una persona per quello che
ha perso per ore, giorni, mesi o anni. Quella persona ti potrà anche
dire: ho capito, ma continuare a versare lacrime. Non lo fa perché è
stupida, o perché finge di aver compreso quello che le stai dicendo.
Lo fa solo perché, come ogni essere umano su questa terra, l'uomo è
fatto di spirito e mente. E se le due parti non si trovano d'accordo,
se l'una non accetta l'altra, la sofferenza non può cessare.
Nel mio caso, anche se
volevo uscire da questo dolore con dignità, era il corpo a tradirmi.
Il corpo, che mutava, che soffriva, che mi rinfacciava quello che era
successo. Che mi abbandonava. Che dal sogno, dalla gioia mi ributtava
indietro, al punto di inizio.
Adesso è passata. Ho
accettato. E anche il mio corpo si sta riassestando. I giorni che
sono seguiti alle nere ore del 18 giugno, li ho presi come
un'esperienza, analizzando e ascoltando tutto minuziosamente, dentro
e fuori. Come sempre, mi è servito per comprendere molte nuove cose
e ad avere la conferma di altre.
A cominciare dal fatto,
come se ce ne fosse bisogno, che quando la pena ti colpisce, non devi
schivarla. Non devi fare finta di niente, ubriacarti, volgere lo
sguardo altrove. Il modo più concreto e sano per affrontare una
perdita, un dolore, è quello di affrontarlo, scendere dentro se
stessi e ascoltarsi. Nel silenzio più assoluto, nella solitudine
ascoltare quello che ti sta accadendo e imparare. Imparare la lezione
che ti è stata offerta.
Ci sono miliardi di modi
di vivere questa esistenza, ma si riducono a due, alla fine. Opporti
a quello che non puoi cambiare, oppure accettarlo. Nel primo caso la
sofferenza non avrà fine, e ti ritroverai a domandarti
ossessivamente perché, perché, perché, fino allo sfinimento. Con
conseguenze talvolta nefaste. La seconda ti consente di integrare il
dolore, di accettarlo, farne tesoro e andare avanti.
Come diceva Nietzsche:
“Quello che non ti distrugge, ti fortifica”.
Il percorso è tutt'altro
che semplice e la scelta è individuale.
every person individually, a world. you powerful look at life, like it.
RispondiEliminaOgni persona affronta il dolore in modo differente, e alla fine quel che conta è il risultato. Purtroppo, le persone, e generalizzo, si lamentano per niente, ma è giusto che sia così (discorso troppo lungo).
RispondiEliminaTi auguro un milione di in bocca al lupo!:*
Credo di aver intuito il discorso 'troppo lungo'. Ti abbraccio, grazie!
Eliminasiamo ancora individualmente liberi di scegliere e - soprattutto - di versare lacrime, a torto verso noi stessi o a ragione verso qualcun'altro incapace di ascoltare. Leggo il tuo blog, un post alla volta. Il mio vecchio blog è un crogiuolo di emozioni variamente saldate fra loro. Troppo nero e troppo bianco. E il cielo per converso.
RispondiEliminaAllora proverò a leggere anche io il tuo vecchio blog, vediamo un po' cosa ne penso :-)
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