Invito alla presentazione del libro “Donna Gerarda. Medicatrix dell'ospedale di Udine – A.D. 1402” di Enza Chiara Lai e conoscenza dell'autrice e delle sue opere
Questo venerdì mi vedrà
entusiasta partecipe del seguente evento culturale:
Si tratta della
presentazione di uno degli ultimi libri della Prof.ssa Enza Chiara
Lai, una ricercatrice, antropologa e soprattutto una donna di raro
spessore.
Venzone, Solstizio
d'Estate 2015: Luigina l'arpista – Enza Chiara Lai la scrittrice –
Sibilla Pinocchio la cantastorie
Ho avuto il piacere di
conoscerla qualche anno fa in seguito alla lettura di diversi suoi
libri, fonti preziosissime per il mio lavoro di ricerca e
divulgazione del tema “I culti pagani in Friuli”, che ha riscosso
così tanto successo in regione. Ho stretto la mano a una donna
colta, dallo sguardo magnetico ma al contempo materno e affettuoso,
che vive per la conoscenza, i suoi alunni della scuola nella quale
insegna e la scrittura. Insomma, non poteva che nascere un profondo
feeling che non ha fatto che aumentare nel tempo grazie alla lettura
dei suoi numerosi libri, della sua erudizione e della sua umanità.
Spero che accorrerete in
molti al suo prossimo evento, perché ne vale la pena!
Nel frattempo credo di farvi un grande dono scrivendovi la lista delle sue opere con una breve sinossi: ci sono davvero poche persone al mondo che si occupano della storia dei “dimenticati”, dei “nascosti”.
Comincio dalla biografia che verrà presentata tra due giorni:
Nel frattempo credo di farvi un grande dono scrivendovi la lista delle sue opere con una breve sinossi: ci sono davvero poche persone al mondo che si occupano della storia dei “dimenticati”, dei “nascosti”.
Comincio dalla biografia che verrà presentata tra due giorni:
DONNA GERARDA.
MEDICATRIX
DELL’OSPEDALE DI UDINE. A. D. 1402
Ribis,
2015
Il
nome di Gerarda compare negli Annales
civitatis Utini,
XV,
f.
243v (o anche ACA, ANNALES, TOMO XII, f. 41v), conservati presso la
Biblioteca Joppi.
È
designata come “medicatrix”
(curatrice con metodi naturali, forse pure ostetrica) ed era figlia
dell'erborista Giacomo da Vicenza. Le veniva corrisposto un salario
di dieci ducati annui (mentre il medico fisico Nicolussio, negli
stessi anni e presso il medesimo ospedale, ne percepiva cento). È
probabile che a quell'epoca la donna non fosse giovanissima, almeno
secondo lo standard del tempo, dato che il 12 maggio 1404 suo genero
Giovanni Teutonico chiede al Comune il salario a lei dovuto.
È la prima donna medico di Udine. Nel corso della sua vita, Gerarda incontra Cavalieri Templari che partono per la Terrasanta dal porto di Aquileia; mercanti dell’antica Udine che aprono i loro banchi sotto gli archi del Mercato Vecchio; medici e speziali che combattono contro la Morte Nera, la terribile epidemia di peste che falcidiò il Friuli nel 1348.
È la prima donna medico di Udine. Nel corso della sua vita, Gerarda incontra Cavalieri Templari che partono per la Terrasanta dal porto di Aquileia; mercanti dell’antica Udine che aprono i loro banchi sotto gli archi del Mercato Vecchio; medici e speziali che combattono contro la Morte Nera, la terribile epidemia di peste che falcidiò il Friuli nel 1348.
NEL
NOME DI BELENO
CÌDULIS
E PIGNARÛI NELLE TRADIZIONI DEL FRIULI NORD-ORIENTALE
Ribis,
2004
Mormorii
di preghiere e invocazioni di aiuto, frastuono di battaglie, prove di
coraggio, corse sfrenate con fiaccole accese, sussurri di donne e
grida maschili, cantilene e presagi di vecchi àuguri, sfide di
giovani divenuti guerrieri. Parole e gesti di epoche lontane
riempiono le notti del solstizio d’inverno, quando il cielo,
percorso da presenze inquietanti e da ombre di dee antiche, è
illuminato dalle scie di fuoco delle cìdulis
e dalle fiamme del pignarûl,
eterno tentativo del popolo friulano di piegare il fato e la natura
alle proprie necessità e di ingraziarsi il favore delle potenze
celesti, per poter sperare, almeno sperare, in un domani migliore.
Lievi
tracce di rituali arcaici: di alcuni di essi percepiamo oramai solo
un’eco lontana, quasi un ricordo ancestrale; di altri,
sopravvissuti più a lungo ai mutamenti storici e sociali, ci rimane
qualche vaga testimonianza e qualche scolorito documento; di tutti
abbiamo perso la chiave interpretativa, la consapevolezza del loro
primitivo significato.
Ma
queste reliquie del passato, questi echi di antiche civiltà, anche
se ormai sviliti e degradati, possono diventare uno stimolo che aiuta
a ricostruire l’epoca o la civiltà religiosa in cui non stavano
come rottame disorganico, ma come momento vivo e vitale, come organo
di un organismo funzionante nella pienezza della sua realtà sociale
e culturale.
Nelle
tradizioni del Friuli, regione di confine da secoli e per secoli
soggetta a invasioni e occupazioni ma appunto per questo terra di
incontro di etnie e crogiolo di culture, è possibile trovare ancora
importanti tracce dei riti che scandivano la vita degli antichi
abitatori di questo territorio: cerimonie antichissime, risalenti a
un’epoca in cui l’uomo regolava i propri tempi e ritmi di vita
sul ciclo delle stagioni e su di un generale più intimo contatto con
la natura.
Nel
calendario del popolo friulano le tradizioni legate all’antica
celebrazione del solstizio d’inverno sono quelle in cui si svolgono
i riti più importanti e più sentiti, quelli in cui si nota una più
intensa partecipazione sia numerica che emotiva: vecchi e giovani
seguono lo svolgimento dei riti con una partecipazione emotiva in cui
si scorge un sentimento antico, che la civiltà e il progresso non
sono riusciti a cancellare del tutto.
E
in questi momenti, in queste notti il Friuli si illumina di mille
fuochi.
In
pianura, quasi ogni paese accende il proprio falò: le fiamme si
innalzano rapidamente nel buio, i partecipanti gridano, cantilenando,
le filastrocche beneaugurali, mentre i vecchi della comunità
interpretano l’andamento del fuoco, il suo vigore, la direzione del
fumo e delle fiamme.
Nelle
stesse notti, in montagna, il cielo è solcato da miriadi di stelle
infuocate: sono le cìdulis, piccole rotelle arroventate scagliate
verso l’oscurità dai giovani del paese, i quali ne accompagnano la
traiettoria con grida di gioia e frasi salaci all’indirizzo delle
donne più giovani della comunità.
Di
alcuni di quei rituali arcaici percepiamo oramai solo una eco
lontana, quasi un ricordo ancestrale; di altri ci rimane qualche vaga
testimonianza e qualche scolorito documento; di tutti abbiamo perso
la chiave interpretativa, la consapevolezza del loro primitivo
significato.
Ma
queste reliquie del passato, questi echi di antiche civiltà, anche
se ormai sviliti e degradati, possono diventare uno stimolo che aiuta
a ricostruire l’epoca o la civiltà religiosa in cui non stavano
come rottame disorganico, ma come momento vivo e vitale, come organo
di un organismo funzionante nella pienezza della sua realtà sociale
e culturale.
UNA
PAGINA DELLA STORIA DI JALMICCO.
LA
VISITA APOSTOLICA DI BARTOLOMEO DA PORCIA NEL 1570
Ribis,
2007
Il
17 aprile 1848, nell’intento di sedare le manifestazioni di
protesta da parte dei volontari della fortezza di Palmanova che
chiedevano di impegnare gli Austriaci in combattimento, il generale
Zucchi ordinò una sortita su Visco, dove erano acquartierati mezzo
squadrone di ulani dell’Arciduca Carlo e un battaglione confinario
Croce di Varasdino. Le truppe italiane riuscirono ben presto ad avere
la meglio. Considerato l’esito felice della sortita e ritenendo
rischioso inseguire il nemico sulla strada di Versa senza la
copertura dell’artiglieria, il generale Zucchi ordinò la ritirata.
Il
contrattacco degli Austriaci fu, però, immediato: una feroce
rappresaglia venne scatenata nei paesi attorno alla fortezza: Visco,
Privano, Sevegliano, Bagnaria e parte di Strassoldo, di Fauglis e
Sottoselva, furono saccheggiati e dati alle fiamme.
Jalmicco
seguì dunque la triste sorte di molti paesi del circondario di
Palma. La rappresaglia si scatenò, secondo alcuni storici perché
alcuni abitanti avevano sparato contro le truppe austriache, secondo
altri perché avevano ucciso un loro tamburino. In quella notte di
razzie, incendi e terrore bruciarono tutti i documenti della storia
più antica del paese. Poco quel che rimane e disperso.
Un
documento molto importante, che contribuisce a far luce sulla storia
della comunità di Jalmicco è conservato nell’Archivio della Curia
Arcivescovile di Udine. Si tratta del manoscritto della relazione
redatta in occasione della visita del conte Bartolomeo da Porcia,
alto prelato friulano della Curia romana, inviato del papa quale
Visitatore Apostolico nei territori arciducali della diocesi di
Aquileia nel 1570, negli anni immediatamente successivi al Concilio
di Trento. Nel manoscritto viene minuziosamente descritta la chiesa e
sono inventariate tutte le suppellettili, gli arredi sacri e le opere
d’arte in essa conservate: ciò ci permette di conoscere la
situazione economica della parrocchia, il grado di povertà o
ricchezza della comunità. Le domande del Porcia sulla situazione
religiosa del paese e le conseguenti risposte date dal pievano e
dagli uomini della villa di Jalmicco, ci offrono un affresco degli
usi e costumi del tempo, della vita che conducevano gli abitanti di
questo piccolo borgo, i nomi di alcuni di essi, i loro vizi, le loro
virtù, i loro peccati.
È
un mondo vivo che traspare dalle pagine ingiallite. Un mondo a cui
veniva imposto di mutare, e non era un cambiamento che investiva solo
la sfera religiosa, ma tutta la società civile dell’epoca.
Il
diario di questa visita è, al momento, l’unico documento che, sia
per la sua completezza che per la dovizia di dati, ci permetta di
conoscere molti e importanti particolari sulla storia del paese di
Jalmicco e sulla vita che vi si conduceva in quel lontano periodo.
“DENONZIA
CONTRA UN BENANDANTE DE JOANNIS.
MALEFICI,
SORTILEGI E BATTAGLIE NOTTURNE
ATTORNO
ALLA FORTEZZA DI PALMA”
Ribis,
2008
In
una calda domenica di giugno dell’anno Domini 1651, Pasqua
Marchesani, una donna di Privano, sta entrando nella fortezza di
Palma, nuova piazzaforte eretta dalla potenza e dall’orgoglio
veneziano. Pasqua si sofferma ad ammirare la grande piazza su cui
sventola il gonfalone di san marco, adocchia qualche merce esotica
nella bottega dello speziale e si indigna, o forse sorride, alle
pesanti battute dei soldati. Poi però affretta il passo. Vuole
incontrare un personaggio importante che certamente la aiuterà a
liberare la sua coscienza da un peso divenuto insopportabile.
Accanto
alla chiesa dedicata a San Francesco, nella sala del capitolo del
convento dei frati Minori Conventuali, il vicario dell’inquisitore
istituisce i processi contro quanti sono accusati di eresia,
stregoneria, magia terapeutica, rapporti con il demonio. A lui Pasqua
intende denunciare un certo Leonardo Eponere di Joannis che dice di
essere un benandante.
La
denuncia di Pasqua offre lo spunto per analizzare la credenza
friulana sull’esistenza di uomini predestinati fin dalla nascita ad
imprese straordinarie: quattro volte l’anno, nelle notti delle
Tempora, il loro spirito viene chiamato a combattere per la fertilità
dei campi e il destino dei raccolti contro schiere di stregoni devoti
al Maligno; Dall’esito di queste battaglie notturne dipende la
sopravvivenza della comunità: se vinceranno i benandanti, in
quell’anno ci sarà abbondanza di frutti della terra, se
soccomberanno alle streghe, grandine, tempesta e siccità
devasteranno i campi e arrecheranno carestia e povertà alla gente
dei villaggi. Inoltre, alcuni di essi asseriscono di poter comunicare
con i morti, di essere in grado di riconoscere le streghe, di
ostacolarne i disegni malefici, di curare le vittime delle fatture,
soprattutto i bambini.
Le
streghe, appunto. Anch’esse fanno parte dei personaggi di questa
storia, come anche le donne che credono ai loro poteri e come gli
inquisitori del Santo Uffizio che, dalla fine del XV secolo agli
inizi del XVIII, in Friuli come in tutta l’Italia, hanno
interrogato e processato migliaia di donne e di uomini accusati di
essere maghi e streghe, jettatori, guaritori, herbarie e benandanti.
“A
PESTE, FAME ET BELLO...”
DONNE,
STREGHE E BENANDANTI.
VITA
QUOTIDIANA E INQUISIZIONE NEL FRIULI DEL XVII SECOLO
Ribis, 2009
Ribis, 2009
Questo
lavoro racconta le vicende di tre donne vissute nelle campagne della
bassa pianura orientale friulana alla fine del ’500.
Antonia
è una vecchia, povera e sola, scacciata di casa dai figli dopo che è
rimasta vedova. Da tutti è conosciuta come “la strega di
Cervignano”: cura le sofferenze del corpo e dell’anima mescolando
pratiche magiche e preghiere, medicamenti empirici e segni di croce;
sa riconoscere le malie e riesce a curarne le vittime.
In
una società decimata da malattie ignote e da carestie continue,
quando il dolore e la sofferenza sono considerati inevitabili
castighi divini per i peccati umani, dove non ci sono dottori o
speziali a consigliare qualche rimedio o a dare anche solo un sogno
di guarigione, Antonia è una figura di riferimento per l’intera
comunità. È presente, conosciuta, economica: anche i più poveri
possono ottenere da lei un aiuto in cambio di qualche lavoretto o di
un po’ di cibo. Per la sua conoscenza delle erbe e per la sua
esperienza è, però, anche molto temuta: chi sa guarire è potente,
possiede virtù strane, oscure, ambivalenti, non condivise e non
condivisibili. Antonia può curare un ammalato, favorire un amore,
salvare un bambino, ma potrebbe anche, in virtù degli stessi poteri,
provocare morti, malattie, discordie.
La
donna viene accusata da molti testimoni di aver praticato arti
magiche: segna gli ammalati, misura le fasce, benedice gli indumenti,
scopre le fatture, scioglie legamenti; usa cristalli, preenti,
orazioni, parole oscure; esce la notte di san Giovanni per
raccogliere erbe e rugiada. È una “strega maledetta”, un “idolo
del demonio”.
Antonia
venne chiamata a discolparsi davanti al reverendo padre Gerolamo
Asteo da Pordenone, Inquisitore Generale della diocesi di Aquileia e
Concordia. Nonostante le ammissioni, le incertezze, le contraddizioni
e le palesi omissioni riscontrabili nella sua dichiarazione, il
Sant’Ufficio le inflisse una pena mite: le fu imposto di tornare
immediatamente a Scodovacca e di non uscire per alcun motivo dal
dominio veneto, di non medicare o preentare, di non indulgere in
superstizioni. Se non avesse ottemperato agli ordini del tribunale,
sarebbe stata scomunicata per essere sfuggita alla sentenza, per
dimostrata colpevolezza e per contumacia:
Pascutta
e Narda sono due donne di Moruzzis, un piccolo villaggio vicino a
Terzo di Aquileia. A Margherita, una loro conoscente, raccontano di
essere Benandanti e di combattere le streghe nelle notti delle
Tempora. Da queste battaglie notturne dipende l’esito dei raccolti:
se vinceranno, in quell’anno ci sarà abbondanza, se soccomberanno
alle streghe, carestia.
Ma
non è tutto. Affermano anche di vedere i morti, di parlare con loro,
di fare da tramite tra i defunti e i loro parenti ancora in vita,
rassicurando questi ultimi sulla sorte dei loro cari nell’aldilà,
portandoli a conoscenza del loro desiderio di essere aiutati a
raggiungere la salvezza, chiedendo ed ottenendo dai defunti consigli
e ammonimenti.
Rieccheggia
qui un tema antichissimo: il viaggio estatico dei viventi verso il
mondo dei morti e quello del ritorno dei morti tra i vivi. Di questo
mondo di credenze fanno parte le tradizioni, in parte tra loro
collegate, della “società di Diana” e della “caccia
selvaggia”. La prima racconta di donne che sostengono di recarsi a
misteriose riunioni con enigmatiche divinità femminili capaci di
ridare la vita agli animali morti ma non agli uomini, e che
insegnavano alle loro seguaci le virtù delle erbe, i rimedi per
curare le malattie, il modo di trovare le cose rubate e di sciogliere
i malefici.
La
leggenda della “caccia selvaggia” ci narra il misterioso vagare
della schiera di anime dannate, spettri inquieti, streghe, perdute
deità pagane che percorre i cieli d’Europa in alcune notti
magiche, notti nelle quali l’uscio che separa gli universi degli
uomini e quelli del popolo del sovramondo pagano si schiudono per
poche, fatali e terribili ore, nelle quali spazio e tempo si
dissolvono.
Nonostante
la gravità delle affermazioni e l’apertura di un processo
informativo decisa il 19 aprile 1600, le due benandanti di Moruzzis
non furono mai interrogate dagli inquisitori del Sant’Ufficio di
Udine. Di Narda e Pascutta ci rimangono le dichiarazioni di una donna
curiosa che per gioco o per scherzo, per fede o per paura, ha
raccontato le loro esperienze affascinanti e incredibili al proprio
confessore, che le ha tramandate fino a noi.
Sebbene
questi due incartamenti non siano tra i più importanti né tra i più
complessi fra quelli giunti fino a noi, la ricostruzione delle
vicende “giudiziarie” di Antonia Pauloni la strega di Cervignano,
e di Pascutta Agrigolante e Narda Peresut benandanti di Moruzzis, ha
reso possibile analizzare, attraverso i fatti storici e le vicende
sociali che hanno caratterizzato il Friuli in quel periodo, sia la
condizione umana delle protagoniste, sia la dimensione dei rapporti
economici, sociali e familiari della popolazione che viveva nella
bassa pianura orientale alla fine del XVI secolo.
Ma
il libro racconta anche, e soprattutto, una storia di donne: madri,
mogli, streghe, herbarie che non hanno mai avuto voce, ma che
attraverso il loro sacrificio e il loro coraggio ci hanno tramandato
le credenze e i saperi, le conoscenze e i riti di una cultura antica
che in tutti noi perdura e riaffiora.
ADELLIACO,
A.D. 762 “…ET CARTAS DE LIBERTATE FECIMUS…”
Ribis,
2014
Nel
più antico documento altomedievale friulano, la Donazione Sestense
del 762, tre fratelli longobardi forse di famiglia ducale Marco, Erfo
ed Anto, donano tutti i loro possedimenti all'abbazia maschile di
Sesto e una seconda fondazione monastica, stavolta femminile, nata a
Salt, un piccolo villaggio non lontano da Cividale. Questo secondo
monastero viene posto sotto la direzione della madre dei donatori,
Piltrude. Oltre ad assegnare aziende e beni fondiari, i tre nobili
includono nello stesso documento una manumissio
dei servi che lavoravano sotto la loro piena potestà al momento
della donazione. La liberazione dei servi mediante il rilascio di
cartas
de libertate
è un fatto unico nel panorama regionale dell'VIII secolo, unicità
accentuata da un dettaglio di non poca rilevanza, almeno a nostro
parere: l'indicazione specifica della concessione delle carte di
libertà anche per le serve e le aldiane.
La
Donazione Sestense del 762 è certamente un documento molto
importante per la storia del Friuli, per l'assetto territoriale della
regione, per la sua toponomastica, per il monachesimo italiano, per
le vicende del regno longobardo, ma non è solo uno spaccato di un
mondo lontano, è invece uno squarcio sul mondo invisibile delle
donne: Piltrude, forse duchessa o addirittura regina longobarda, ma
sicuramente madre di nobili generosi e badessa di un prospero
monastero; Esvitta, ricca moglie di Erfo, guerriero leale e monaco
devoto; le ancillas
vel aldianas che
attraverso la concessione di una “carta di libertà” hanno
ottenuto la dignità di donne libere in un'epoca in cui la libertà
era un privilegio anche per pochi uomini.
Il
fatto che il documento non la abbia semplicemente sottintese, come
inconsapevoli appendici dei loro uomini, ma citate come persone, ha
reso queste donne del volgo vive e presenti nella storia del nostro
popolo. Possiamo dunque ricordare, con orgoglio ancora maggiore, le
nostre radici e le nostre tradizioni di libertà.
Dalle
riflessioni dell'autrice:
“Non
è mai stato facile parlare del ruolo delle donne nella storia,
perché per lunghi secoli sono mancate le fonti documentarie che
potessero testimoniare una loro presenza attiva sulla scena pubblica
ed anche perché il loro ruolo è stato sempre estraneo rispetto ai
grandi processi storici.
Per
questi motivi, gli studi storici hanno cominciato a occuparsi della
figura e del ruolo della donna in epoca molto recente, cioè a
partire dagli anni 60, ma solo negli ultimi trent'anni si è
verificata una vera e propria esplosione di studi di storia delle
donne con il riconoscimento della storia di genere come specifico
ambito di ricerca.
Oggigiorno
il tema viene ampiamente indagato e divulgato, così che si può
affermare che la barriera di silenzio che per millenni ha circondato
l'universo femminile sta finalmente iniziando a sgretolarsi.
Ricorrendo
a fonti nuove o accostandosi a quelle tradizionali con sguardo
diverso, gli studiosi esaminano l'esperienza femminile attraverso i
secoli, analizzano le vicende particolari di singole persone o gruppi
e le confrontano con le trasformazioni politiche, ideologiche ed
economiche.
Appare
chiaro, però che, a prescindere dall'epoca della storia europea,
dalla classe e dal rango sociale, dalla nazionalità o dal gruppo
etnico, la maggior parte delle donne veniva definita a seconda della
sua relazione con gli uomini. Molte donne rimangono nella storia solo
per il loro rapporto di parentela con personaggi maschili: Lavinia
moglie di Enea, Porzia figlia di Catone, Cornelia madre dei Gracchi
sono solo pochi tra gli esempi più antichi della storia latina. Una
donna è identificata come figlia del padre, moglie o vedova del
marito, madre del figlio e vive la sua vita esclusivamente nel ruolo
di membro di una famiglia dominata dal maschio. Anche le donne che
facevano parte di ordini religiosi erano definite dal loro rigetto
del matrimonio terreno e venivano considerate "spose di Cristo".
Allevare
i figli, prendersi cura della famiglia, occuparsi delle faccende
casalinghe sono stati considerati i compiti predestinati,
biologicamente adeguati alle donne, ma questi ruoli primari delle
donne non hanno precluso loro altri lavori e altre responsabilità:
hanno lavorato sui campi, percepito una paga, procurato alla famiglia
entrate supplementari; sarchiando, mietendo, cucendo, pulendo le case
degli altri, accudendo i figli degli altri, lavorando nelle fattorie,
le donne hanno reso possibile la sopravvivenza delle loro famiglie.
Alcune
donne sono state in grado di sfuggire a questi limiti: una donna
appartenente a una famiglia cristiana proprietaria di terre aveva
l'opportunità di entrare in un ordine religioso. Donne ricche e
aristocratiche impiegavano tradizionalmente altre donne per occuparsi
dei loro figli e assisterle nelle faccende domestiche. Alcune donne
appartenenti a famiglie reali sono diventate regine e hanno governato
da sole. Ma tutte le donne europee, fossero esse regine o suore,
aristocratiche, artigiane o contadine, sono state soggette ad un
altro fattore limitante: le opinioni largamente negative che la
cultura europea ha sulle donne. Considerate imperfette di natura, di
minor valore, e quindi inferiori, la loro subordinazione all'uomo è
stata presentata come parte dell'ordine naturale delle cose. Una
donna che esercitasse un ruolo dominante, sia su un trono che in
famiglia, era vista come un pericolo per la gerarchia naturale
dell'universo che vuole l'uomo al primo posto.
Queste
posizioni culturali, espresse nei più antichi testi greci, romani ed
ebraici, sono cambiate incredibilmente poco nel corso dei secoli.
L'ingiunzione biblica ad Eva: “…
moltiplicherò assai le tue pene e le doglie
della
tua gravidanza; avrai i figli nel dolore,
tuttavia
ti sentirai attratta con ardore verso
tuo
marito ed egli dominerà su di te…”
è ripetuta in ogni epoca e in ogni nazione europea. Nessuna donna ha
potuto sfuggire completamente all'effetto di queste opinioni e di
tutti i fattori che hanno limitato la vita delle donne, queste
tradizioni culturali negative si sono dimostrate le più potenti e le
più resistenti al cambiamento.
Nonostante
i limiti e le restrizioni, le donne europee hanno sempre cercato di
dare valore alle loro vite. Molte hanno provato piacere e orgoglio
nel generare e allevare i figli, nei compiti, per quanto ordinari,
necessari al mantenimento delle generazioni. Molte hanno rivendicato,
come donne, autorità morale e spirituale, attingendo a quelle
tradizioni religiose o etiche che attribuivano potere alle donne,
piuttosto che subordinarle. Molte non si sono ribellate, oppure la
loro ribellione non ha lasciato tracce sui documenti storici perché,
purtroppo, gran parte delle creazioni femminili è stata anonima ed
effimera: i cesti di rami di salice, che servivano per raccogliete
cibo; i tessuti in lana tinta a mano che hanno vestito gli europei
nei secoli antichi; le tovaglie di pizzo dei corredi per le giovani,
gli oggetti casalinghi e i giocattoli per i bambini ideati per
rendere la vita più facile e più piacevole.
E
proprio come tanti oggetti creati dalle donne sono svaniti, così
sono svanite le loro vite. Assenti dai documenti che testimoniano le
attività e i successi degli uomini, le donne europee non hanno mai
avuto una loro storia e questo vale ancora di più per il medioevo e
soprattutto per una società come quella longobarda, in cui le
battaglie, i tornei e il culto della forza bruta rivestita d'acciaio
non concedevano grande spazio alla donna disarmata.
La
donna, che non
poteva godere di diritti come l'uomo proprio perché non era adatta a
portare le armi, rappresentava
l'elemento debole: era compresa nel vincolo di sangue, prestigio e
interessi della famiglia e della stirpe ma, incapace di autodifesa
armata e destinata al connubio, poneva a repentaglio tutta la
posizione sociale del suo gruppo, sia come possibile oggetto di
violenza e disonore, sia come tramite di sangue e diritti verso
individui e lignaggi estranei.
L'Edictus
Rothari (del 643 d.C.), cap. 204, prescriveva: "A nessuna donna
libera, che viva sotto la giurisdizione del nostro regno secondo la
legge dei longobardi, sia consentito vivere secondo la potestà del
proprio arbitrio, cioè selpumidia,
ma essa sia sempre sottoposta alla potestà di un uomo della
famiglia, o, mancando questi, al Re; e non abbia facoltà di alienare
o donare alcunché dei beni mobili o immobili senza il consenso di
colui sotto il cui mundio si trova".
Alla
stregua insomma di vecchi e bambini, la donna rientra nella fascia
dei più deboli, degli indifesi tutelati dal legislatore attraverso
l'istituto del mundio,
una potestà perpetua esercitata dal padre o dal fratello, se la
donna era nubile; dal marito, che l'aveva acquistato da un tutore
precedente, se era sposata; dai parenti del marito o dai figli, se
era vedova o, in casi estremi, dal sovrano. La
sua iniziativa aveva bisogno di conferma e sostegno, correlati alla
sua debolezza e alla sua potenziale pericolosità; attraverso il
mundio,
il capofamiglia difendeva la congiunta dalla società, assicurandole
indennità e decoro, e contemporaneamente difendeva la famiglia e la
società dalla donna.
Non
essendo la donna soggetto di diritti, ma solo oggetto di diritti
altrui, la
donna non poteva prendere marito contro la volontà dei parenti: era
tollerato che una libera sposasse un semilibero, incorrendo peraltro
in una squalifica che aveva ripercussioni anche sui figli, ma era
assolutamente vietato, come sovvertimento grave di tutto l'ordine
sociale, il matrimonio con un servo.
Gli
accordi matrimoniali avvenivano tra colui che aveva il mundio
e la famiglia del marito: si trattava della cessione di un mezzo di
produzione, per il quale era logico che si pagasse un compenso e,
dato che il patrimonio doveva di preferenza restare ai maschi
continuatori della famiglia, la donna longobarda doveva accontentarsi
del faderfio
e del corredo.
Inoltre,
essa non poteva né donare né vendere alcunché dei suoi beni, sia
mobili che immobili, senza il consenso di colui che aveva il mundio
su di lei; non solo, ma l'eventuale atto doveva svolgersi alla
presenza di parenti destinati ad accertare che non avesse subito
violenze atte ad influenzarla e che agisse di sua spontanea volontà.
È
pur vero che la storia conserva il ricordo di grandi donne
appartenenti al popolo longobardo che hanno influenzato non poco le
decisioni finali di principi e di re: la regina d'Italia Teodolinda,
vedova del re longobardo Autari e sposa del re Agilulfo, che con la
sua devozione e con la sua saggezza riuscì a convertire il suo
popolo al cattolicesimo; sua figlia Gundeberga, moglie del re Rotari;
Wigelinda tutrice dell'erede al trono Liutperto; Adelberga, sposa di
Arechi II, per la sua sensibilità muliebre contribuì ad ingentilire
i rozzi costumi dei loro uomini; Aurona, duchessa di Benevento, che
fondò un grande monastero a Milano. Ma esse erano donne di famiglie
aristocratiche o addirittura regali, che avevano cercato nei chiostri
un contropotere al maschilismo guerriero, un'affermazione che le
corti, intrise di intrighi spietati e violenti, negavano loro. Il
sistema dei monasteri femminili, per la sua rarità e qualità
sociale, non aveva infatti realizzato, almeno fino al IX secolo, che
le prime fondazioni, assai esclusive, di una cultura femminile di
élite,
la
quale
affiancava principesse vergini a ex regine o a vedove regali, a mogli
ripudiate di grandi nobili.
Ma
il distacco di classe fra le donne dell'aristocrazia, mogli, figlie,
sorelle di imperatori, re e grandi vassalli, e le donne della
campagna e del villaggio, mogli, figlie, sorelle di contadini e
artigiani era, come appare chiaro, enorme.
Queste
donne, schiave, serve, aldane del feudo, lavoravano nella curtis
del signore.
Su
quella terra sconfinata si aprivano tanti piccoli mansi,
con modestissime baracche di legno, prive di camino e con le finestre
fumose, dove vivevano i coloni, uomini liberi ma legati a vita a
quella terra e a quella fattoria, con le loro mogli e figli. Per
alcuni giorni alla settimana i coloni dovevano fornire il lavoro
delle loro braccia al signore, arandone le terre o prestando servizi,
come tagliare alberi, riparare, portare pesi, cogliere la frutta,
fare la birra. Gli altri giorni lavoravano il loro manso per il cibo
della sopravvivenza. I coloni dovevano pagare al signore tributi in
denaro e in natura: la "decima" (spartita fra signore e
parroco), un tributo per l'esercito, un altro per il diritto di
pascolo nel bosco.
Serve,
schiave o colone che fossero, le donne erano super sfruttate: adibite
ai più umili lavori domestici nella dimora padronale o alla
tessitura senza sosta nei laboratori. Erano obbligate a sposarsi
nella cerchia dei servi o dei dipendenti del signore e i loro figli
erano proprietà di quest'ultimo. Costrette a pagare per poter
cuocere il loro scuro pane di segale nel forno del padrone, l'unico
esistente, cercavano di risparmiare, mangiando polente, pappe di
miglio o d'orzo, farinate. Dovevano pagare anche l'uso del torchio,
del frantoio, del mulino. Il tributo annuale in natura era costituito
da polli e uova, assi di legno, talora da una coppia di porci, o da
miele, cera, sapone, olio. Le donne, dedicandosi come sempre al cibo,
erano abili nel salare e affumicare la carne del maiale,
nell'utilizzarne il grasso per fabbricare candele, nel fare la birra
con l'orzo fermentato. Fra le altre mansioni femminili c'era la
tosatura delle pecore, la filatura e la tessitura della lana e della
canapa, con cui le donne confezionavano le brache e le tuniche di
figli e mariti e, chissà, le brevi vesti femminili, anche se non ci
è giunta una sola illustrazione di come fosse vestita una contadina
dell'età medievale.”
ROGHNEDA,
L’ANTICA DONNA DELLA CENTA. ANNO DOMINI 1021
Ribis,
2013
Questo
libro, come i seguenti, fa parte della collana Storie
nella Storia del Friuli,
una raccolta delle “biografie” di alcuni personaggi poco noti
della storia friulana, molto distanti tra loro per spazio e per
tempo, le cui esistenze, storicamente documentate, hanno attraversato
un
lunghissimo periodo che va dall’anno Mille alla fine della Seconda
Guerra mondiale.
Molti
personaggi minori
(alcuni realmente esistiti, altri del tutto inventati) fungono
da testimoni e narratori delle microstorie di cui vive il racconto
principale incentrato sulla vita delle protagoniste.
Prima
che di “Storia”, dunque, questo
libro si occupa di “storie” raccontate da donne, uomini, ragazzi,
preti, streghe e contadini che parlano di guerra e di amore, di
viaggi e pellegrinaggi, di vendette e di onore, di morte, lavoro,
fede,
rancori,
solidarietà.
I
dialoghi inseriti nel testo, come anche molte ricostruzioni di
ambienti interni e di paesaggi, pur essendo verosimili sono
ovviamente frutto di fantasia e alle volte si allontanano dal vero
per libera scelta o per necessità.
Lo
scenario storico e geografico in cui i personaggi si muovono, il tipo
di vita che conducono e i grandi poteri che li governano e che
decidono il loro destino hanno, invece, rigorose radici storiche e
documentarie.
L'antico
complesso della Centa, dopo essere stato lasciato in uno stato di
totale abbandono fin dai tempi del secondo dopoguerra, è stato
acquistato e ristrutturato da Bruna e Claudio Pizzi i quali, durante
il loro intenso e pregevole lavoro intrapreso per ridare nuova linfa
ad un luogo che ormai aveva perso da parecchio tempo la sua funzione
originaria, hanno fatto un'interessante scoperta: la struttura
bassomedievale della canipa era stata costruita sopra una necropoli
altomedievale. Gli archeologi, dopo due campagne di scavo e un
intenso lavoro di studio e di analisi, hanno potuto stabilire che le
persone sepolte appartenevano alla civiltà slavo-carinziana di
Köttlach. Il patriarca di Aquileia tra il IX e il X secolo, in
seguito alle scorrerie degli Ungari, aveva infatti ripopolato la
Bassa friulana con coloni di origine slava, il cui insediamento ha
lasciato chiare tracce nella toponomastica locale.
La
centa di Joannis era un tempo il centro della vita religiosa e civile
della comunità, il luogo dove per secoli si è riunita la vicinia,
dove si sono svolti riti sacri e profani, dove gli antichi abitanti
hanno affrontato, tutti uniti, le traversie della storia e costruito
il futuro del loro villaggio. È divenuto, ora, un luogo di grande
suggestione capace di evocare ancora le voci di un passato vitale e
intensamente vissuto.
Roghneda
e tutti i personaggi di questo lungo racconto non hanno ovviamente
riscontri storici, così come è di pura fantasia la ricostruzione
del villaggio altomedievale e del paesaggio circostante che questi
antichi immigrati furono chiamati a ripopolare dopo le distruzioni
portate dalle orde degli Ungari in territorio friulano.
I
grandi poteri che li governano e decidono il loro destino hanno,
invece, rigorose radici storiche e documentarie.
La
loro vita è stata immaginata sulla base di documenti del periodo in
cui sono vissute le persone che per secoli hanno riposato entro le
mura della centa di Joannis e che sono venute alla luce nel corso
delle campagne di scavi.
Non
tutti i particolari, dunque, sono reali – moltissimi, anzi, si
allontanano dal vero per libera scelta o per necessità – ma
sicuramente racchiudono lo spirito di qualcosa che sarebbe potuto
accadere davvero.
In
questo libro si racconta la vita degli antichi abitanti di questo
piccolo villaggio di contadini e soprattutto le vicende di Roghneda,
antica sciamana e guaritrice che ha ereditato il dono della
guarigione dalle donne della sua famiglia.
MADDALENA
DE’ VARMO,
BADESSA
DEL MONASTERO DI AQUILEIA. A. D. 1511
Ribis,
2014
Maddalena,
che apparteneva alla nobile famiglia dei Signori di Varmo, una casata
di origine tedesca giunta in Friuli nel 1100, fu
abbadessa
del monastero di Santa Maria di Aquileia dal 1506 al 29 giugno 1519,
data della sua morte. Venne confermata dal papa Giulio II tramite il
canonico Nicolò Savorgnan, vicario generale in
spiritualibus
et temporalibus
del patriarca, giudice della chiesa di Aquileia e specialiter
deputato
dalla Santa Sede.
Il
libro racconta, attraverso i ricordi di questa importante figura di
religiosa e delle sue consorelle (Smiralda, la speziale; Cassandra,
la mistica; Graziosa, costretta al convento dalla famiglia) la vita
all’interno del monastero femminile di Aquileia e alcuni dei fatti
storici più rilevanti della storia del Friuli accaduti negli a anni
a cavallo tra il XV e XVI secolo.
1914
– 1918. LA GRANDE GUERRA DELLE DONNE.
DONNE
SULL’ORLO DI UNA PERENNE CRISI DI NERVI
Che
le donne abbiano sempre lavorato, tanto all’interno quanto
all’esterno della sfera domestica, è oggi un dato storicamente
acquisito, anche se della presenza femminile nel mondo produttivo del
passato non si hanno certezze numeriche e spesso nemmeno
approssimazioni attendibili.
La
scarsità della documentazione disponibile è dovuta principalmente
al fatto che le donne, e soprattutto le lavoratrici, sono state
considerate dei personaggi secondari della storia e le fonti spesso
omettono qualsiasi dato sui mestieri, le professioni, il lavoro delle
donne.
Questo
perché, mentre l’identità maschile è stata sempre definita
soprattutto in relazione al mestiere, quella femminile dipende
essenzialmente dallo stato civile (sposata, nubile, vedova) e dalla
posizione occupata all’interno della famiglia (figlia, moglie,
madre, sorella). Tale situazione lacunosa è inoltre accentuata sia
dal carattere marginale e privato del lavoro femminile, sia dalla sua
intermittenza, dovuta all’alternanza delle fasi economiche. Ne
risulta che la storia del lavoro femminile è ben distinta dalla
storia del lavoro maschile, pur inserendosi in uno sviluppo che le
impone di quando in quando dei momenti di evoluzione parallela.
La questione del lavoro femminile, infatti, esiste nell’opinione pubblica soltanto nella misura, e nei momenti, in cui questo lavoro si presenta in forme e in condizioni che si avvicinano a quelle consuete per gli uomini.
La questione del lavoro femminile, infatti, esiste nell’opinione pubblica soltanto nella misura, e nei momenti, in cui questo lavoro si presenta in forme e in condizioni che si avvicinano a quelle consuete per gli uomini.
TRAME
DI DONNE.
LA
TESSITURA TRA STORIA, ANTROPOLOGIA E MONDO FEMMINILE
Questo scritto vuole essere un riconoscimento dei lavori femminili, di quelli retribuiti, generalmente mal retribuiti, e di quelli non retribuiti; di quelli riconosciuti, normalmente riconosciuti solo a metà, e di quelli passati sotto silenzio.
Saperi che nascevano dalla pratica, dall’esperienza, cioè dal lavoro, dall’apprendistato, dal magistero: l’approvvigionamento e la conservazione dei cibi, la confezione e cura dei vestiti, la celebrazione rituale delle feste, la medicina casalinga, la preoccupazione per le figlie e i figli, tutto un insieme di sapienza popolare, sapienza femminile, pratiche di relazione, cura dell’altro e cura delle cose al servizio degli altri.
È un modo di avvicinarci all’altra cultura, che correva, e corre ancora, parallela alla cultura dominante, che era in mano alle donne e si trasmetteva da una donna all’altra.
Saperi che nascevano dalla pratica, dall’esperienza, cioè dal lavoro, dall’apprendistato, dal magistero: l’approvvigionamento e la conservazione dei cibi, la confezione e cura dei vestiti, la celebrazione rituale delle feste, la medicina casalinga, la preoccupazione per le figlie e i figli, tutto un insieme di sapienza popolare, sapienza femminile, pratiche di relazione, cura dell’altro e cura delle cose al servizio degli altri.
È un modo di avvicinarci all’altra cultura, che correva, e corre ancora, parallela alla cultura dominante, che era in mano alle donne e si trasmetteva da una donna all’altra.
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