Invito alla presentazione del libro “Donna Gerarda. Medicatrix dell'ospedale di Udine – A.D. 1402” di Enza Chiara Lai e conoscenza dell'autrice e delle sue opere

Questo venerdì mi vedrà entusiasta partecipe del seguente evento culturale:


Si tratta della presentazione di uno degli ultimi libri della Prof.ssa Enza Chiara Lai, una ricercatrice, antropologa e soprattutto una donna di raro spessore.

Venzone, Solstizio d'Estate 2015: Luigina l'arpista – Enza Chiara Lai la scrittrice – Sibilla Pinocchio la cantastorie

Ho avuto il piacere di conoscerla qualche anno fa in seguito alla lettura di diversi suoi libri, fonti preziosissime per il mio lavoro di ricerca e divulgazione del tema “I culti pagani in Friuli”, che ha riscosso così tanto successo in regione. Ho stretto la mano a una donna colta, dallo sguardo magnetico ma al contempo materno e affettuoso, che vive per la conoscenza, i suoi alunni della scuola nella quale insegna e la scrittura. Insomma, non poteva che nascere un profondo feeling che non ha fatto che aumentare nel tempo grazie alla lettura dei suoi numerosi libri, della sua erudizione e della sua umanità.

Spero che accorrerete in molti al suo prossimo evento, perché ne vale la pena!

Nel frattempo credo di farvi un grande dono scrivendovi la lista delle sue opere con una breve sinossi: ci sono davvero poche persone al mondo che si occupano della storia dei “dimenticati”, dei “nascosti”.

Comincio dalla biografia che verrà presentata tra due giorni:


DONNA GERARDA.
MEDICATRIX DELL’OSPEDALE DI UDINE. A. D. 1402
Ribis, 2015


Il nome di Gerarda compare negli Annales civitatis Utini, XV, f. 243v (o anche ACA, ANNALES, TOMO XII, f. 41v), conservati presso la Biblioteca Joppi.
È designata come “medicatrix” (curatrice con metodi naturali, forse pure ostetrica) ed era figlia dell'erborista Giacomo da Vicenza. Le veniva corrisposto un salario di dieci ducati annui (mentre il medico fisico Nicolussio, negli stessi anni e presso il medesimo ospedale, ne percepiva cento). È probabile che a quell'epoca la donna non fosse giovanissima, almeno secondo lo standard del tempo, dato che il 12 maggio 1404 suo genero Giovanni Teutonico chiede al Comune il salario a lei dovuto.
È la prima donna medico di Udine. Nel corso della sua vita, Gerarda incontra Cavalieri Templari che partono per la Terrasanta dal porto di Aquileia; mercanti dell’antica Udine che aprono i loro banchi sotto gli archi del Mercato Vecchio; medici e speziali che combattono contro la Morte Nera, la terribile epidemia di peste che falcidiò il Friuli nel 1348.


NEL NOME DI BELENO
CÌDULIS E PIGNARÛI NELLE TRADIZIONI DEL FRIULI NORD-ORIENTALE
Ribis, 2004


Mormorii di preghiere e invocazioni di aiuto, frastuono di battaglie, prove di coraggio, corse sfrenate con fiaccole accese, sussurri di donne e grida maschili, cantilene e presagi di vecchi àuguri, sfide di giovani divenuti guerrieri. Parole e gesti di epoche lontane riempiono le notti del solstizio d’inverno, quando il cielo, percorso da presenze inquietanti e da ombre di dee antiche, è illuminato dalle scie di fuoco delle cìdulis e dalle fiamme del pignarûl, eterno tentativo del popolo friulano di piegare il fato e la natura alle proprie necessità e di ingraziarsi il favore delle potenze celesti, per poter sperare, almeno sperare, in un domani migliore.
Lievi tracce di rituali arcaici: di alcuni di essi percepiamo oramai solo un’eco lontana, quasi un ricordo ancestrale; di altri, sopravvissuti più a lungo ai mutamenti storici e sociali, ci rimane qualche vaga testimonianza e qualche scolorito documento; di tutti abbiamo perso la chiave interpretativa, la consapevolezza del loro primitivo significato.
Ma queste reliquie del passato, questi echi di antiche civiltà, anche se ormai sviliti e degradati, possono diventare uno stimolo che aiuta a ricostruire l’epoca o la civiltà religiosa in cui non stavano come rottame disorganico, ma come momento vivo e vitale, come organo di un organismo funzionante nella pienezza della sua realtà sociale e culturale.
Nelle tradizioni del Friuli, regione di confine da secoli e per secoli soggetta a invasioni e occupazioni ma appunto per questo terra di incontro di etnie e crogiolo di culture, è possibile trovare ancora importanti tracce dei riti che scandivano la vita degli antichi abitatori di questo territorio: cerimonie antichissime, risalenti a un’epoca in cui l’uomo regolava i propri tempi e ritmi di vita sul ciclo delle stagioni e su di un generale più intimo contatto con la natura.
Nel calendario del popolo friulano le tradizioni legate all’antica celebrazione del solstizio d’inverno sono quelle in cui si svolgono i riti più importanti e più sentiti, quelli in cui si nota una più intensa partecipazione sia numerica che emotiva: vecchi e giovani seguono lo svolgimento dei riti con una partecipazione emotiva in cui si scorge un sentimento antico, che la civiltà e il progresso non sono riusciti a cancellare del tutto.
E in questi momenti, in queste notti il Friuli si illumina di mille fuochi.
In pianura, quasi ogni paese accende il proprio falò: le fiamme si innalzano rapidamente nel buio, i partecipanti gridano, cantilenando, le filastrocche beneaugurali, mentre i vecchi della comunità interpretano l’andamento del fuoco, il suo vigore, la direzione del fumo e delle fiamme.
Nelle stesse notti, in montagna, il cielo è solcato da miriadi di stelle infuocate: sono le cìdulis, piccole rotelle arroventate scagliate verso l’oscurità dai giovani del paese, i quali ne accompagnano la traiettoria con grida di gioia e frasi salaci all’indirizzo delle donne più giovani della comunità.
Di alcuni di quei rituali arcaici percepiamo oramai solo una eco lontana, quasi un ricordo ancestrale; di altri ci rimane qualche vaga testimonianza e qualche scolorito documento; di tutti abbiamo perso la chiave interpretativa, la consapevolezza del loro primitivo significato.
Ma queste reliquie del passato, questi echi di antiche civiltà, anche se ormai sviliti e degradati, possono diventare uno stimolo che aiuta a ricostruire l’epoca o la civiltà religiosa in cui non stavano come rottame disorganico, ma come momento vivo e vitale, come organo di un organismo funzionante nella pienezza della sua realtà sociale e culturale.


UNA PAGINA DELLA STORIA DI JALMICCO.
LA VISITA APOSTOLICA DI BARTOLOMEO DA PORCIA NEL 1570
Ribis, 2007


Il 17 aprile 1848, nell’intento di sedare le manifestazioni di protesta da parte dei volontari della fortezza di Palmanova che chiedevano di impegnare gli Austriaci in combattimento, il generale Zucchi ordinò una sortita su Visco, dove erano acquartierati mezzo squadrone di ulani dell’Arciduca Carlo e un battaglione confinario Croce di Varasdino. Le truppe italiane riuscirono ben presto ad avere la meglio. Considerato l’esito felice della sortita e ritenendo rischioso inseguire il nemico sulla strada di Versa senza la copertura dell’artiglieria, il generale Zucchi ordinò la ritirata.
Il contrattacco degli Austriaci fu, però, immediato: una feroce rappresaglia venne scatenata nei paesi attorno alla fortezza: Visco, Privano, Sevegliano, Bagnaria e parte di Strassoldo, di Fauglis e Sottoselva, furono saccheggiati e dati alle fiamme.
Jalmicco seguì dunque la triste sorte di molti paesi del circondario di Palma. La rappresaglia si scatenò, secondo alcuni storici perché alcuni abitanti avevano sparato contro le truppe austriache, secondo altri perché avevano ucciso un loro tamburino. In quella notte di razzie, incendi e terrore bruciarono tutti i documenti della storia più antica del paese. Poco quel che rimane e disperso.
Un documento molto importante, che contribuisce a far luce sulla storia della comunità di Jalmicco è conservato nell’Archivio della Curia Arcivescovile di Udine. Si tratta del manoscritto della relazione redatta in occasione della visita del conte Bartolomeo da Porcia, alto prelato friulano della Curia romana, inviato del papa quale Visitatore Apostolico nei territori arciducali della diocesi di Aquileia nel 1570, negli anni immediatamente successivi al Concilio di Trento. Nel manoscritto viene minuziosamente descritta la chiesa e sono inventariate tutte le suppellettili, gli arredi sacri e le opere d’arte in essa conservate: ciò ci permette di conoscere la situazione economica della parrocchia, il grado di povertà o ricchezza della comunità. Le domande del Porcia sulla situazione religiosa del paese e le conseguenti risposte date dal pievano e dagli uomini della villa di Jalmicco, ci offrono un affresco degli usi e costumi del tempo, della vita che conducevano gli abitanti di questo piccolo borgo, i nomi di alcuni di essi, i loro vizi, le loro virtù, i loro peccati.
È un mondo vivo che traspare dalle pagine ingiallite. Un mondo a cui veniva imposto di mutare, e non era un cambiamento che investiva solo la sfera religiosa, ma tutta la società civile dell’epoca.
Il diario di questa visita è, al momento, l’unico documento che, sia per la sua completezza che per la dovizia di dati, ci permetta di conoscere molti e importanti particolari sulla storia del paese di Jalmicco e sulla vita che vi si conduceva in quel lontano periodo.


DENONZIA CONTRA UN BENANDANTE DE JOANNIS.
MALEFICI, SORTILEGI E BATTAGLIE NOTTURNE
ATTORNO ALLA FORTEZZA DI PALMA”
Ribis, 2008


In una calda domenica di giugno dell’anno Domini 1651, Pasqua Marchesani, una donna di Privano, sta entrando nella fortezza di Palma, nuova piazzaforte eretta dalla potenza e dall’orgoglio veneziano. Pasqua si sofferma ad ammirare la grande piazza su cui sventola il gonfalone di san marco, adocchia qualche merce esotica nella bottega dello speziale e si indigna, o forse sorride, alle pesanti battute dei soldati. Poi però affretta il passo. Vuole incontrare un personaggio importante che certamente la aiuterà a liberare la sua coscienza da un peso divenuto insopportabile.
Accanto alla chiesa dedicata a San Francesco, nella sala del capitolo del convento dei frati Minori Conventuali, il vicario dell’inquisitore istituisce i processi contro quanti sono accusati di eresia, stregoneria, magia terapeutica, rapporti con il demonio. A lui Pasqua intende denunciare un certo Leonardo Eponere di Joannis che dice di essere un benandante.
La denuncia di Pasqua offre lo spunto per analizzare la credenza friulana sull’esistenza di uomini predestinati fin dalla nascita ad imprese straordinarie: quattro volte l’anno, nelle notti delle Tempora, il loro spirito viene chiamato a combattere per la fertilità dei campi e il destino dei raccolti contro schiere di stregoni devoti al Maligno; Dall’esito di queste battaglie notturne dipende la sopravvivenza della comunità: se vinceranno i benandanti, in quell’anno ci sarà abbondanza di frutti della terra, se soccomberanno alle streghe, grandine, tempesta e siccità devasteranno i campi e arrecheranno carestia e povertà alla gente dei villaggi. Inoltre, alcuni di essi asseriscono di poter comunicare con i morti, di essere in grado di riconoscere le streghe, di ostacolarne i disegni malefici, di curare le vittime delle fatture, soprattutto i bambini.
Le streghe, appunto. Anch’esse fanno parte dei personaggi di questa storia, come anche le donne che credono ai loro poteri e come gli inquisitori del Santo Uffizio che, dalla fine del XV secolo agli inizi del XVIII, in Friuli come in tutta l’Italia, hanno interrogato e processato migliaia di donne e di uomini accusati di essere maghi e streghe, jettatori, guaritori, herbarie e benandanti.


A PESTE, FAME ET BELLO...”
DONNE, STREGHE E BENANDANTI.
VITA QUOTIDIANA E INQUISIZIONE NEL FRIULI DEL XVII SECOLO
Ribis, 2009


Questo lavoro racconta le vicende di tre donne vissute nelle campagne della bassa pianura orientale friulana alla fine del ’500.
Antonia è una vecchia, povera e sola, scacciata di casa dai figli dopo che è rimasta vedova. Da tutti è conosciuta come “la strega di Cervignano”: cura le sofferenze del corpo e dell’anima mescolando pratiche magiche e preghiere, medicamenti empirici e segni di croce; sa riconoscere le malie e riesce a curarne le vittime.
In una società decimata da malattie ignote e da carestie continue, quando il dolore e la sofferenza sono considerati inevitabili castighi divini per i peccati umani, dove non ci sono dottori o speziali a consigliare qualche rimedio o a dare anche solo un sogno di guarigione, Antonia è una figura di riferimento per l’intera comunità. È presente, conosciuta, economica: anche i più poveri possono ottenere da lei un aiuto in cambio di qualche lavoretto o di un po’ di cibo. Per la sua conoscenza delle erbe e per la sua esperienza è, però, anche molto temuta: chi sa guarire è potente, possiede virtù strane, oscure, ambivalenti, non condivise e non condivisibili. Antonia può curare un ammalato, favorire un amore, salvare un bambino, ma potrebbe anche, in virtù degli stessi poteri, provocare morti, malattie, discordie.
La donna viene accusata da molti testimoni di aver praticato arti magiche: segna gli ammalati, misura le fasce, benedice gli indumenti, scopre le fatture, scioglie legamenti; usa cristalli, preenti, orazioni, parole oscure; esce la notte di san Giovanni per raccogliere erbe e rugiada. È una “strega maledetta”, un “idolo del demonio”.
Antonia venne chiamata a discolparsi davanti al reverendo padre Gerolamo Asteo da Pordenone, Inquisitore Generale della diocesi di Aquileia e Concordia. Nonostante le ammissioni, le incertezze, le contraddizioni e le palesi omissioni riscontrabili nella sua dichiarazione, il Sant’Ufficio le inflisse una pena mite: le fu imposto di tornare immediatamente a Scodovacca e di non uscire per alcun motivo dal dominio veneto, di non medicare o preentare, di non indulgere in superstizioni. Se non avesse ottemperato agli ordini del tribunale, sarebbe stata scomunicata per essere sfuggita alla sentenza, per dimostrata colpevolezza e per contumacia:
Pascutta e Narda sono due donne di Moruzzis, un piccolo villaggio vicino a Terzo di Aquileia. A Margherita, una loro conoscente, raccontano di essere Benandanti e di combattere le streghe nelle notti delle Tempora. Da queste battaglie notturne dipende l’esito dei raccolti: se vinceranno, in quell’anno ci sarà abbondanza, se soccomberanno alle streghe, carestia.
Ma non è tutto. Affermano anche di vedere i morti, di parlare con loro, di fare da tramite tra i defunti e i loro parenti ancora in vita, rassicurando questi ultimi sulla sorte dei loro cari nell’aldilà, portandoli a conoscenza del loro desiderio di essere aiutati a raggiungere la salvezza, chiedendo ed ottenendo dai defunti consigli e ammonimenti.
Rieccheggia qui un tema antichissimo: il viaggio estatico dei viventi verso il mondo dei morti e quello del ritorno dei morti tra i vivi. Di questo mondo di credenze fanno parte le tradizioni, in parte tra loro collegate, della “società di Diana” e della “caccia selvaggia”. La prima racconta di donne che sostengono di recarsi a misteriose riunioni con enigmatiche divinità femminili capaci di ridare la vita agli animali morti ma non agli uomini, e che insegnavano alle loro seguaci le virtù delle erbe, i rimedi per curare le malattie, il modo di trovare le cose rubate e di sciogliere i malefici.
La leggenda della “caccia selvaggia” ci narra il misterioso vagare della schiera di anime dannate, spettri inquieti, streghe, perdute deità pagane che percorre i cieli d’Europa in alcune notti magiche, notti nelle quali l’uscio che separa gli universi degli uomini e quelli del popolo del sovramondo pagano si schiudono per poche, fatali e terribili ore, nelle quali spazio e tempo si dissolvono.
Nonostante la gravità delle affermazioni e l’apertura di un processo informativo decisa il 19 aprile 1600, le due benandanti di Moruzzis non furono mai interrogate dagli inquisitori del Sant’Ufficio di Udine. Di Narda e Pascutta ci rimangono le dichiarazioni di una donna curiosa che per gioco o per scherzo, per fede o per paura, ha raccontato le loro esperienze affascinanti e incredibili al proprio confessore, che le ha tramandate fino a noi.
Sebbene questi due incartamenti non siano tra i più importanti né tra i più complessi fra quelli giunti fino a noi, la ricostruzione delle vicende “giudiziarie” di Antonia Pauloni la strega di Cervignano, e di Pascutta Agrigolante e Narda Peresut benandanti di Moruzzis, ha reso possibile analizzare, attraverso i fatti storici e le vicende sociali che hanno caratterizzato il Friuli in quel periodo, sia la condizione umana delle protagoniste, sia la dimensione dei rapporti economici, sociali e familiari della popolazione che viveva nella bassa pianura orientale alla fine del XVI secolo.
Ma il libro racconta anche, e soprattutto, una storia di donne: madri, mogli, streghe, herbarie che non hanno mai avuto voce, ma che attraverso il loro sacrificio e il loro coraggio ci hanno tramandato le credenze e i saperi, le conoscenze e i riti di una cultura antica che in tutti noi perdura e riaffiora.



ADELLIACO, A.D. 762 “…ET CARTAS DE LIBERTATE FECIMUS…”
Ribis, 2014


Nel più antico documento altomedievale friulano, la Donazione Sestense del 762, tre fratelli longobardi forse di famiglia ducale Marco, Erfo ed Anto, donano tutti i loro possedimenti all'abbazia maschile di Sesto e una seconda fondazione monastica, stavolta femminile, nata a Salt, un piccolo villaggio non lontano da Cividale. Questo secondo monastero viene posto sotto la direzione della madre dei donatori, Piltrude. Oltre ad assegnare aziende e beni fondiari, i tre nobili includono nello stesso documento una manumissio dei servi che lavoravano sotto la loro piena potestà al momento della donazione. La liberazione dei servi mediante il rilascio di cartas de libertate è un fatto unico nel panorama regionale dell'VIII secolo, unicità accentuata da un dettaglio di non poca rilevanza, almeno a nostro parere: l'indicazione specifica della concessione delle carte di libertà anche per le serve e le aldiane.
La Donazione Sestense del 762 è certamente un documento molto importante per la storia del Friuli, per l'assetto territoriale della regione, per la sua toponomastica, per il monachesimo italiano, per le vicende del regno longobardo, ma non è solo uno spaccato di un mondo lontano, è invece uno squarcio sul mondo invisibile delle donne: Piltrude, forse duchessa o addirittura regina longobarda, ma sicuramente madre di nobili generosi e badessa di un prospero monastero; Esvitta, ricca moglie di Erfo, guerriero leale e monaco devoto; le ancillas vel aldianas che attraverso la concessione di una “carta di libertà” hanno ottenuto la dignità di donne libere in un'epoca in cui la libertà era un privilegio anche per pochi uomini.
Il fatto che il documento non la abbia semplicemente sottintese, come inconsapevoli appendici dei loro uomini, ma citate come persone, ha reso queste donne del volgo vive e presenti nella storia del nostro popolo. Possiamo dunque ricordare, con orgoglio ancora maggiore, le nostre radici e le nostre tradizioni di libertà.

Dalle riflessioni dell'autrice:
Non è mai stato facile parlare del ruolo delle donne nella storia, perché per lunghi secoli sono mancate le fonti documentarie che potessero testimoniare una loro presenza attiva sulla scena pubblica ed anche perché il loro ruolo è stato sempre estraneo rispetto ai grandi processi storici.
Per questi motivi, gli studi storici hanno cominciato a occuparsi della figura e del ruolo della donna in epoca molto recente, cioè a partire dagli anni 60, ma solo negli ultimi trent'anni si è verificata una vera e propria esplosione di studi di storia delle donne con il riconoscimento della storia di genere come specifico ambito di ricerca.
Oggigiorno il tema viene ampiamente indagato e divulgato, così che si può affermare che la barriera di silenzio che per millenni ha circondato l'universo femminile sta finalmente iniziando a sgretolarsi.
Ricorrendo a fonti nuove o accostandosi a quelle tradizionali con sguardo diverso, gli studiosi esaminano l'esperienza femminile attraverso i secoli, analizzano le vicende particolari di singole persone o gruppi e le confrontano con le trasformazioni politiche, ideologiche ed economiche.
Appare chiaro, però che, a prescindere dall'epoca della storia europea, dalla classe e dal rango sociale, dalla nazionalità o dal gruppo etnico, la maggior parte delle donne veniva definita a seconda della sua relazione con gli uomini. Molte donne rimangono nella storia solo per il loro rapporto di parentela con personaggi maschili: Lavinia moglie di Enea, Porzia figlia di Catone, Cornelia madre dei Gracchi sono solo pochi tra gli esempi più antichi della storia latina. Una donna è identificata come figlia del padre, moglie o vedova del marito, madre del figlio e vive la sua vita esclusivamente nel ruolo di membro di una famiglia dominata dal maschio. Anche le donne che facevano parte di ordini religiosi erano definite dal loro rigetto del matrimonio terreno e venivano considerate "spose di Cristo".
Allevare i figli, prendersi cura della famiglia, occuparsi delle faccende casalinghe sono stati considerati i compiti predestinati, biologicamente adeguati alle donne, ma questi ruoli primari delle donne non hanno precluso loro altri lavori e altre responsabilità: hanno lavorato sui campi, percepito una paga, procurato alla famiglia entrate supplementari; sarchiando, mietendo, cucendo, pulendo le case degli altri, accudendo i figli degli altri, lavorando nelle fattorie, le donne hanno reso possibile la sopravvivenza delle loro famiglie.
Alcune donne sono state in grado di sfuggire a questi limiti: una donna appartenente a una famiglia cristiana proprietaria di terre aveva l'opportunità di entrare in un ordine religioso. Donne ricche e aristocratiche impiegavano tradizionalmente altre donne per occuparsi dei loro figli e assisterle nelle faccende domestiche. Alcune donne appartenenti a famiglie reali sono diventate regine e hanno governato da sole. Ma tutte le donne europee, fossero esse regine o suore, aristocratiche, artigiane o contadine, sono state soggette ad un altro fattore limitante: le opinioni largamente negative che la cultura europea ha sulle donne. Considerate imperfette di natura, di minor valore, e quindi inferiori, la loro subordinazione all'uomo è stata presentata come parte dell'ordine naturale delle cose. Una donna che esercitasse un ruolo dominante, sia su un trono che in famiglia, era vista come un pericolo per la gerarchia naturale dell'universo che vuole l'uomo al primo posto.
Queste posizioni culturali, espresse nei più antichi testi greci, romani ed ebraici, sono cambiate incredibilmente poco nel corso dei secoli. L'ingiunzione biblica ad Eva: “… moltiplicherò assai le tue pene e le doglie della tua gravidanza; avrai i figli nel dolore, tuttavia ti sentirai attratta con ardore verso tuo marito ed egli dominerà su di te…” è ripetuta in ogni epoca e in ogni nazione europea. Nessuna donna ha potuto sfuggire completamente all'effetto di queste opinioni e di tutti i fattori che hanno limitato la vita delle donne, queste tradizioni culturali negative si sono dimostrate le più potenti e le più resistenti al cambiamento.
Nonostante i limiti e le restrizioni, le donne europee hanno sempre cercato di dare valore alle loro vite. Molte hanno provato piacere e orgoglio nel generare e allevare i figli, nei compiti, per quanto ordinari, necessari al mantenimento delle generazioni. Molte hanno rivendicato, come donne, autorità morale e spirituale, attingendo a quelle tradizioni religiose o etiche che attribuivano potere alle donne, piuttosto che subordinarle. Molte non si sono ribellate, oppure la loro ribellione non ha lasciato tracce sui documenti storici perché, purtroppo, gran parte delle creazioni femminili è stata anonima ed effimera: i cesti di rami di salice, che servivano per raccogliete cibo; i tessuti in lana tinta a mano che hanno vestito gli europei nei secoli antichi; le tovaglie di pizzo dei corredi per le giovani, gli oggetti casalinghi e i giocattoli per i bambini ideati per rendere la vita più facile e più piacevole.
E proprio come tanti oggetti creati dalle donne sono svaniti, così sono svanite le loro vite. Assenti dai documenti che testimoniano le attività e i successi degli uomini, le donne europee non hanno mai avuto una loro storia e questo vale ancora di più per il medioevo e soprattutto per una società come quella longobarda, in cui le battaglie, i tornei e il culto della forza bruta rivestita d'acciaio non concedevano grande spazio alla donna disarmata.
La donna, che non poteva godere di diritti come l'uomo proprio perché non era adatta a portare le armi, rappresentava l'elemento debole: era compresa nel vincolo di sangue, prestigio e interessi della famiglia e della stirpe ma, incapace di autodifesa armata e destinata al connubio, poneva a repentaglio tutta la posizione sociale del suo gruppo, sia come possibile oggetto di violenza e disonore, sia come tramite di sangue e diritti verso individui e lignaggi estranei.
L'Edictus Rothari (del 643 d.C.), cap. 204, prescriveva: "A nessuna donna libera, che viva sotto la giurisdizione del nostro regno secondo la legge dei longobardi, sia consentito vivere secondo la potestà del proprio arbitrio, cioè selpumidia, ma essa sia sempre sottoposta alla potestà di un uomo della famiglia, o, mancando questi, al Re; e non abbia facoltà di alienare o donare alcunché dei beni mobili o immobili senza il consenso di colui sotto il cui mundio si trova".
Alla stregua insomma di vecchi e bambini, la donna rientra nella fascia dei più deboli, degli indifesi tutelati dal legislatore attraverso l'istituto del mundio, una potestà perpetua esercitata dal padre o dal fratello, se la donna era nubile; dal marito, che l'aveva acquistato da un tutore precedente, se era sposata; dai parenti del marito o dai figli, se era vedova o, in casi estremi, dal sovrano. La sua iniziativa aveva bisogno di conferma e sostegno, correlati alla sua debolezza e alla sua potenziale pericolosità; attraverso il mundio, il capofamiglia difendeva la congiunta dalla società, assicurandole indennità e decoro, e contemporaneamente difendeva la famiglia e la società dalla donna.
Non essendo la donna soggetto di diritti, ma solo oggetto di diritti altrui, la donna non poteva prendere marito contro la volontà dei parenti: era tollerato che una libera sposasse un semilibero, incorrendo peraltro in una squalifica che aveva ripercussioni anche sui figli, ma era assolutamente vietato, come sovvertimento grave di tutto l'ordine sociale, il matrimonio con un servo.
Gli accordi matrimoniali avvenivano tra colui che aveva il mundio e la famiglia del marito: si trattava della cessione di un mezzo di produzione, per il quale era logico che si pagasse un compenso e, dato che il patrimonio doveva di preferenza restare ai maschi continuatori della famiglia, la donna longobarda doveva accontentarsi del faderfio e del corredo.
Inoltre, essa non poteva né donare né vendere alcunché dei suoi beni, sia mobili che immobili, senza il consenso di colui che aveva il mundio su di lei; non solo, ma l'eventuale atto doveva svolgersi alla presenza di parenti destinati ad accertare che non avesse subito violenze atte ad influenzarla e che agisse di sua spontanea volontà.
È pur vero che la storia conserva il ricordo di grandi donne appartenenti al popolo longobardo che hanno influenzato non poco le decisioni finali di principi e di re: la regina d'Italia Teodolinda, vedova del re longobardo Autari e sposa del re Agilulfo, che con la sua devozione e con la sua saggezza riuscì a convertire il suo popolo al cattolicesimo; sua figlia Gundeberga, moglie del re Rotari; Wigelinda tutrice dell'erede al trono Liutperto; Adelberga, sposa di Arechi II, per la sua sensibilità muliebre contribuì ad ingentilire i rozzi costumi dei loro uomini; Aurona, duchessa di Benevento, che fondò un grande monastero a Milano. Ma esse erano donne di famiglie aristocratiche o addirittura regali, che avevano cercato nei chiostri un contropotere al maschilismo guerriero, un'affermazione che le corti, intrise di intrighi spietati e violenti, negavano loro. Il sistema dei monasteri femminili, per la sua rarità e qualità sociale, non aveva infatti realizzato, almeno fino al IX secolo, che le prime fondazioni, assai esclusive, di una cultura femminile di élite, la quale affiancava principesse vergini a ex regine o a vedove regali, a mogli ripudiate di grandi nobili.
Ma il distacco di classe fra le donne dell'aristocrazia, mogli, figlie, sorelle di imperatori, re e grandi vassalli, e le donne della campagna e del villaggio, mogli, figlie, sorelle di contadini e artigiani era, come appare chiaro, enorme.
Queste donne, schiave, serve, aldane del feudo, lavoravano nella curtis del signore.
Su quella terra sconfinata si aprivano tanti piccoli mansi, con modestissime baracche di legno, prive di camino e con le finestre fumose, dove vivevano i coloni, uomini liberi ma legati a vita a quella terra e a quella fattoria, con le loro mogli e figli. Per alcuni giorni alla settimana i coloni dovevano fornire il lavoro delle loro braccia al signore, arandone le terre o prestando servizi, come tagliare alberi, riparare, portare pesi, cogliere la frutta, fare la birra. Gli altri giorni lavoravano il loro manso per il cibo della sopravvivenza. I coloni dovevano pagare al signore tributi in denaro e in natura: la "decima" (spartita fra signore e parroco), un tributo per l'esercito, un altro per il diritto di pascolo nel bosco.
Serve, schiave o colone che fossero, le donne erano super sfruttate: adibite ai più umili lavori domestici nella dimora padronale o alla tessitura senza sosta nei laboratori. Erano obbligate a sposarsi nella cerchia dei servi o dei dipendenti del signore e i loro figli erano proprietà di quest'ultimo. Costrette a pagare per poter cuocere il loro scuro pane di segale nel forno del padrone, l'unico esistente, cercavano di risparmiare, mangiando polente, pappe di miglio o d'orzo, farinate. Dovevano pagare anche l'uso del torchio, del frantoio, del mulino. Il tributo annuale in natura era costituito da polli e uova, assi di legno, talora da una coppia di porci, o da miele, cera, sapone, olio. Le donne, dedicandosi come sempre al cibo, erano abili nel salare e affumicare la carne del maiale, nell'utilizzarne il grasso per fabbricare candele, nel fare la birra con l'orzo fermentato. Fra le altre mansioni femminili c'era la tosatura delle pecore, la filatura e la tessitura della lana e della canapa, con cui le donne confezionavano le brache e le tuniche di figli e mariti e, chissà, le brevi vesti femminili, anche se non ci è giunta una sola illustrazione di come fosse vestita una contadina dell'età medievale.”


ROGHNEDA, L’ANTICA DONNA DELLA CENTA. ANNO DOMINI 1021
Ribis, 2013


Questo libro, come i seguenti, fa parte della collana Storie nella Storia del Friuli, una raccolta delle “biografie” di alcuni personaggi poco noti della storia friulana, molto distanti tra loro per spazio e per tempo, le cui esistenze, storicamente documentate, hanno attraversato un lunghissimo periodo che va dall’anno Mille alla fine della Seconda Guerra mondiale.
Molti personaggi minori (alcuni realmente esistiti, altri del tutto inventati) fungono da testimoni e narratori delle microstorie di cui vive il racconto principale incentrato sulla vita delle protagoniste.
Prima che di “Storia”, dunque, questo libro si occupa di “storie” raccontate da donne, uomini, ragazzi, preti, streghe e contadini che parlano di guerra e di amore, di viaggi e pellegrinaggi, di vendette e di onore, di morte, lavoro, fede, rancori, solidarietà.
I dialoghi inseriti nel testo, come anche molte ricostruzioni di ambienti interni e di paesaggi, pur essendo verosimili sono ovviamente frutto di fantasia e alle volte si allontanano dal vero per libera scelta o per necessità.
Lo scenario storico e geografico in cui i personaggi si muovono, il tipo di vita che conducono e i grandi poteri che li governano e che decidono il loro destino hanno, invece, rigorose radici storiche e documentarie.
L'antico complesso della Centa, dopo essere stato lasciato in uno stato di totale abbandono fin dai tempi del secondo dopoguerra, è stato acquistato e ristrutturato da Bruna e Claudio Pizzi i quali, durante il loro intenso e pregevole lavoro intrapreso per ridare nuova linfa ad un luogo che ormai aveva perso da parecchio tempo la sua funzione originaria, hanno fatto un'interessante scoperta: la struttura bassomedievale della canipa era stata costruita sopra una necropoli altomedievale. Gli archeologi, dopo due campagne di scavo e un intenso lavoro di studio e di analisi, hanno potuto stabilire che le persone sepolte appartenevano alla civiltà slavo-carinziana di Köttlach. Il patriarca di Aquileia tra il IX e il X secolo, in seguito alle scorrerie degli Ungari, aveva infatti ripopolato la Bassa friulana con coloni di origine slava, il cui insediamento ha lasciato chiare tracce nella toponomastica locale.
La centa di Joannis era un tempo il centro della vita religiosa e civile della comunità, il luogo dove per secoli si è riunita la vicinia, dove si sono svolti riti sacri e profani, dove gli antichi abitanti hanno affrontato, tutti uniti, le traversie della storia e costruito il futuro del loro villaggio. È divenuto, ora, un luogo di grande suggestione capace di evocare ancora le voci di un passato vitale e intensamente vissuto.
Roghneda e tutti i personaggi di questo lungo racconto non hanno ovviamente riscontri storici, così come è di pura fantasia la ricostruzione del villaggio altomedievale e del paesaggio circostante che questi antichi immigrati furono chiamati a ripopolare dopo le distruzioni portate dalle orde degli Ungari in territorio friulano.
I grandi poteri che li governano e decidono il loro destino hanno, invece, rigorose radici storiche e documentarie.
La loro vita è stata immaginata sulla base di documenti del periodo in cui sono vissute le persone che per secoli hanno riposato entro le mura della centa di Joannis e che sono venute alla luce nel corso delle campagne di scavi.
Non tutti i particolari, dunque, sono reali – moltissimi, anzi, si allontanano dal vero per libera scelta o per necessità – ma sicuramente racchiudono lo spirito di qualcosa che sarebbe potuto accadere davvero.
In questo libro si racconta la vita degli antichi abitanti di questo piccolo villaggio di contadini e soprattutto le vicende di Roghneda, antica sciamana e guaritrice che ha ereditato il dono della guarigione dalle donne della sua famiglia.


MADDALENA DE’ VARMO,
BADESSA DEL MONASTERO DI AQUILEIA. A. D. 1511
Ribis, 2014


Maddalena, che apparteneva alla nobile famiglia dei Signori di Varmo, una casata di origine tedesca giunta in Friuli nel 1100, fu abbadessa del monastero di Santa Maria di Aquileia dal 1506 al 29 giugno 1519, data della sua morte. Venne confermata dal papa Giulio II tramite il canonico Nicolò Savorgnan, vicario generale in spiritualibus et temporalibus del patriarca, giudice della chiesa di Aquileia e specialiter deputato dalla Santa Sede.
Il libro racconta, attraverso i ricordi di questa importante figura di religiosa e delle sue consorelle (Smiralda, la speziale; Cassandra, la mistica; Graziosa, costretta al convento dalla famiglia) la vita all’interno del monastero femminile di Aquileia e alcuni dei fatti storici più rilevanti della storia del Friuli accaduti negli a anni a cavallo tra il XV e XVI secolo.


1914 – 1918. LA GRANDE GUERRA DELLE DONNE.
NELLE FABBRICHE, NEI CAMPI, NELLE TRINCEE





DONNE SULL’ORLO DI UNA PERENNE CRISI DI NERVI


Che le donne abbiano sempre lavorato, tanto all’interno quanto all’esterno della sfera domestica, è oggi un dato storicamente acquisito, anche se della presenza femminile nel mondo produttivo del passato non si hanno certezze numeriche e spesso nemmeno approssimazioni attendibili.
La scarsità della documentazione disponibile è dovuta principalmente al fatto che le donne, e soprattutto le lavo­ratrici, sono state considerate dei personaggi secondari della storia e le fonti spesso omettono qualsiasi dato sui mestieri, le professioni, il lavoro delle donne.
Questo perché, mentre l’identità ma­schile è stata sempre definita soprattutto in rela­zione al mestiere, quella femminile dipende essenzialmente dallo stato civile (sposata, nubile, vedova) e dalla posizione occupata all’interno della famiglia (figlia, moglie, madre, sorella). Tale situazione lacunosa è inoltre accentuata sia dal carattere marginale e privato del lavoro femminile, sia dalla sua intermittenza, dovuta all’alternanza delle fasi economiche. Ne risulta che la storia del lavoro femminile è ben distinta dalla storia del lavoro maschile, pur inserendosi in uno sviluppo che le impone di quando in quando dei momenti di evoluzione parallela.
La questione del lavoro femminile, infatti, esiste nell’opinione pubblica soltanto nella misura, e nei momenti, in cui questo lavoro si presenta in forme e in condizioni che si avvicinano a quelle consuete per gli uomini.



TRAME DI DONNE.
LA TESSITURA TRA STORIA, ANTROPOLOGIA E MONDO FEMMINILE


Questo scritto vuole essere un riconoscimento dei lavori femminili, di quelli retribuiti, generalmente mal retribuiti, e di quelli non retribuiti; di quelli riconosciuti, normalmente riconosciuti solo a metà, e di quelli passati sotto silenzio.
Saperi che nascevano dalla pratica, dall’esperienza, cioè dal lavoro, dall’apprendistato, dal magistero: l’approvvigionamento e la conservazione dei cibi, la confezione e cura dei vestiti, la celebrazione rituale delle feste, la medicina casalinga, la preoccupazione per le figlie e i figli, tutto un insieme di sapienza popolare, sapienza femminile, pratiche di relazione, cura dell’altro e cura delle cose al servizio degli altri.
È un modo di avvicinarci all’altra cultura, che correva, e corre ancora, parallela alla cultura dominante, che era in mano alle donne e si trasmetteva da una donna all’altra.

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