Cessare di scrivere
Certo il titolo non
riguarda la sottoscritta... ci mancherebbe altro. Da un lato sono
bombardata di ispirazioni e dall'altro Amo scrivere. Proprio per
questo mi ha molto interessato il punto di vista di uno dei più
grandi scrittori americani viventi, Philip Roth, che di recente ha
affermato di aver deciso di lasciare la penna sulla scrivania.
Autore di mostri della
letteratura quali “La macchia umana” e “Pastorale americana”,
creatore del noto personaggio di Nathan Zuckerman, che si ama o si
odia, nelle sue interviste, a proposito della scrittura dichiara:
“Non ho più la forza
di sopportare la frustrazione. Scrivere è una frustrazione
quotidiana, per non parlare dell'umiliazione. È come il baseball:
due terzi del tempo sbagli. Non ce la faccio più a immaginare di
passare altre giornate in cui scrivi cinque pagine e le butti via”
E ancora:
“E poi ho letto i miei
libri e ho capito che ormai le buone idee le avevo esaurite, e se me
ne fosse venuta un'altra avrei dovuto sgobbarci sopra troppo”.
La cosa interessante è
che ultimamente ho letto anche un'intervista a un altro fondamentale
autore della letteratura americana, Tom Wolfe (“Il falò delle
vanità”, “La bestia umana”), che ipotizzava la stessa
decisione di Roth, per le medesime ragioni, a ben vedere.
Ora, loro sono signori
che hanno una vita più di me, avanti negli anni e di certo si
presuppone che siano stanchi come qualunque “buon lavoratore”.
Però loro non sono soltanto dei lavoratori. Sono degli artisti. Ed è
qui che un brivido mi sale lungo la schiena: quando io creo, non
soltanto spendo energie, faccio sacrifici, mi tiro testate sul muro
per trovare la frase giusta, ricreare l'atmosfera più idonea per un
capitolo, ecc, ma riconosco il potere che scaturisce dal processo
artistico e creativo. Per quanto mi riguarda, i piatti della bilancia
sono in equilibrio, o forse no, forse sono a mio favore, in verità,
perché dopo che mi sono occupata del mio romanzo, ogni singolo
giorno della mia vita, io mi sento completa. Il cerchio è formato. E
l'energia prorompente che esce da questo calderone artistico mi
investe completamente, mi illumina, mi rende forte e pronta ad
affrontare qualunque evento.
Per me, scrivere non è
come lavorare in banca, o in fabbrica, o per uno studio associato.
Non è un lavoro meccanico, che prima o poi mi porterà
all'esaurimento e al logoramento interiore, che mi farà bramare di
poter scrivere su un post-it appiccicato sul computer: “La lotta
con la scrittura è terminata”, come ha fatto Roth.
Scrivere è aprirsi al
mondo, al prossimo, è vivere due o dieci vite, è immedesimarsi in
personaggi e psicologie che non ti appartengono o che fanno parte di
te solo in parte, ma che grazie alla narrativa puoi permetterti di
esplorare a fondo. Scrivere è comporre, distruggere e ricostruire
diversi mondi. Certo, è anche una lotta furiosa con la lingua,
poiché tu sai bene cosa vuoi dimostrare, mostrare e scrivere, ma non
sempre trovi la parola giusta per farlo e allora, è vero, sei
costretto a stracciare pagine e pagine e a tormentarti per questo e
soprattutto per l'ansia di non farcela, di non riuscire mai a trovare
le frasi corrette e al contempo di perdere tempo prezioso, tempo che
potrebbe essere impiegato per altri progetti letterari. Ma è anche
vero che bisogna venire a patti con la realtà dell'irrealtà: quello
che è dentro di te e che tu percepisci in un dato modo, anche se lo
spieghi nella maniera più sublime, nella maggioranza dei casi non
potrà essere sentito dal tuo lettore nel medesimo modo.
Semplicemente perché non è te. Non ha il tuo vissuto, non ha
mangiato, amato e studiato le tue stesse cose e di conseguenza ha
sviluppato un'altra sensibilità, diverse percezioni.
Come scrittore, come
artista, sai tutto questo e devi accettare che se anche riuscissi a
trasformare il tuo mondo soggettivo in oggettivo, per far sì che la
maggioranza comprenda il tuo messaggio, in quel caso diventerà
impersonale e non sarà più soggettivo. Sarà una cosa
comprensibile, ma molto diverse da quella che tu provi.
Sono argomenti spinosi e
ci si possono trascorrere ore a scriverne, aprire dibattiti infiniti.
E io non sono
un'insegnante, né una Maestra, non ho la presunzione di insegnare
niente a nessuno, nemmeno a grandi come Roth e Wolfe.
Tuttavia una parte di me
è estremamente dispiaciuta per loro. Perché non proveranno più
quella sensazione di sublime felicità che si prova solo attraverso
la creazione artistica. Auspico pertanto che la trovino altrove e che
siano fieri del lavoro che hanno svolto e possano comodamente
trascorrere le loro giornate immersi nel grembo della Natura, o
davanti a un caminetto col fuoco acceso, mentre leggono un buon
romanzo.
E ringrazio personalmente
Philip Roth per queste parole di miele:
“Non credo che il
romanzo stia morendo. Il pubblico dei lettori si sta esaurendo.
Questo è un fatto e lo sto dicendo da 15 anni. Ho detto che lo
schermo ucciderà la lettura ed è vero. Prima lo schermo
cinematografico, poi lo schermo televisivo, e ora il colpo di grazia:
lo schermo del computer. Ma perché dovremmo avere più lettori? I
numeri non significano niente. I libri significano qualcosa”.
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